Tempo fa mi misi in testa una idea, poi non realizzata, di scrivere un disco intitolandolo “Canzoni della convalescenza”, con riferimento sia a quella fisica che a quella, chiamiamola così, spirituale o, se preferite, metafisica.
Il fatto è che è proprio la parola ad affascinarmi per il suo significato più immediato di rimettersi in salute e per quello più etimologico di acquistare validità. C’è una convalescenza persino nel diritto, e riguarda la tenuta in vita di un atto annullabile tramite le rimozione della sua causa di annullabilità.

Con la convalescenza si rimuove quel che non va e ci si rimette in sesto. Ma – e questa è la cosa che più mi interessa – deve passare del tempo. La riacquisizione delle piene forze fisiche e mentali, il ritorno alla validità, esige un trascorrere del tempo. Che non è un tempo che deve passare così, tanto per; no, deve essere un tempo fruttuoso, non fatto di immobilità – anche se apparentemente pare esserlo – ma fatto di lento quanto continuo passaggio graduale verso la normalità/validità.

Nella convalescenza, a fronte di una mancanza, che deve ricostituirsi, vi è anche una acquisizione di un tempo, altrimenti non concesso, tanto più a chi vive di urgenze e corse perenni (quasi tutti viviamo così, purtroppo). E questa concessione va sfruttata, ovviamente nei limiti in cui il fisico lo permette, magari incontrando persone che ti vengono a trovare, leggendo un libro o ascoltando un pezzo musicale rimandati per tanto tempo o imparando qualcosa di nuovo o riprendendo in mano cose che da tempo avevamo dimenticato in qualche angolo della libreria o della memoria.

Anche se non sono ascolti, letture, incontri pieni, perché non ci si sente ancora in grande forma, si tratta comunque di un recupero, così che al recupero fisico coinciderà, di pari passo, anche un recupero di cose che non facciamo più a causa della stramaledetta corsa che il tempo moderno ci ha imposto con ritmi sempre più forsennati (e che io non tollero più).
La convalescenza conosce questi momenti up come conosce i momenti down in cui pare non avanzarsi verso alcun miglioramento e tutto sembra fermarsi se non, addirittura, peggiorare.
L’arte ha ben espresso queste sensazioni, molti pittori hanno dipinto quadri chiamandoli proprio “la convalescenza”. Io ricordo che la copertina del disco che non feci avrebbe dovuto avere proprio una di queste rappresentazioni. C’è chi ha puntato più sull’aspetto della malattia ancora in corso, c’è chi invece su quello del recupero. Io probabilmente avrei scelto la copertina del quadro di Helene Scjerfbeck dove un bambino guarda un fiore dentro un bicchiere.

Ora che sono in convalescenza, che si preannuncia un po’ più lunga del previsto (mai fidarsi di quelli che ti dicono “quest’operazione è una passeggiata…nessuna, anche la più banale, lo è mai veramente!”), e che effettivamente sto sperimentando i vari stati d’animo descritti, mi è venuto in mente questo ricordo, e non escludo che i prossimi giorni riprenda non l’idea (ho altri progetti) ma una sorta di diario della convalescenza.
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